Perché moltissimi giovani non sanno riconoscere le bufale?

- Perché moltissimi giovani non sanno riconoscere le bufale?
2001: Un sito che si spaccia per “BBC News” annuncia la morte della cantante Britney Spears (Photo by Sion Touhig/Getty Images)

Aprendo il convegno sulle bufale on line Non è vero ma ci credo – Vita, morte e miracoli di una falsa notizia dello scorso 29 novembre la presidente della Camera Laura Boldrini ha affermato:

I ragazzi, i nostri figli, i teenager… sono bravi ‘smanettare’ come si dice, ma non a capire quali sono i loro diritti, e come distinguere una notizia falsa da una vera

Potrebbe sembrare un’affermazione piuttosto paternalista, ma bastava ascoltare il seguito del discorso per capire che Boldrini non stava parlando di sue opinioni personali, ma citava esplicitamente una recentissima ricerca dell’Università di Stanford sui giovani americani.

Nel rapporto diffuso lo scorso 22 novembre gli autori riassumono i risultati con queste parole:

In generale la capacità dei giovani di ragionare sulle informazioni presenti su internet può essere riassunta in una parola: deprimente

e ancora

I nostri ‘nativi digitali’ possono passare da facebook a twitter mentre contemporaneamente caricano un selfie su instagram e mandano un messaggio a un amico, ma quando devono valutare un’informazione che passa attraverso i social media vengono facilmente ingannati

I primi a essere sorpresi dai risultati sono stati proprio i ricercatori dello Stanford History Education Group. Gli esperti, che da anni lavorano a strategie per migliorare l’insegnamento scolastico della Storia, intendevano raccogliere dati su come i giovani valutano le informazioni che incontrano su internet. Queste ultime hanno un ruolo sempre più rilevante nel formare i cittadini ma, come spiega Sam Wineberg nel video di presentazione del progetto, non esistevano ancora strumenti di valutazione adeguati a misurare le capacità di analisi degli studenti di fronte di fronte a un contenuto digitale.

Per colmare questa mancanza di dati tra gennaio del 2015 e il giugno del 2016 i ricercatori hanno sottoposto gli studenti di scuole medie, superiori e universitari in 12 Stati a 56 diverse prove: in ognuna di esse lo studente doveva stabilire se e quanto erano affidabili le informazioni presentate (articoli giornalistici, commenti, foto, tweet, ecc….) e per quale motivo.

I ricercatori spiegano che non intendevano valutare capacità particolarmente raffinate, ma solo capire se gli studenti possedevano i rudimenti, se conoscevano l’abc per non farsi ingannare su internet. Ma dopo aver analizzato quasi 8mila risposte si sono accorti che la situazione era molto più grave di quanto potevano immaginare.

Per esempio una delle prove riservate agli studenti delle superiori era stabilire se un’immagine di margherite deformi postata su un sito di photo sharing dimostrasse chiaramente quali erano le condizioni intorno alla centrale nucleare di Fukushima Daiichi. Incredibilmente meno del 20% degli studenti ha evidenziato che una foto caricata anonimamente su un sito di quel tipo non poteva dire nulla. Quasi il 40% invece ha accettato acriticamente la presunta prova fotografica, mentre un quarto degli studenti l’ha rifiutata ma per i motivi sbagliati (rischio manipolazione con photoshop, mancanza di altri organismi, ecc…).

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(Immagine: Evaluating Information: The Cornerstone of Civic Online Reasoning, Executive Summary, November 22, 2016)

Ma non sono solo le bufale a preoccupare: come ricordato anche dalla presidente della Camera la ricerca ha stabilito che i giovani non sanno riconoscere un contenuto pubblicitario da una notizia. Il problema non sono le pubblicità tradizionali (che gli studenti non fanno fatica a identificare), ma il famigerato native advertising, inseguito da sempre più editori.

Quasi l’80% degli studenti di scuola media sottoposti alle prove non sono stati in grado di guardare una home page e capire che una scritta come “contenuto sponsorizzato” indica che quell’articolo, per il resto del tutto simile agli altri, è in tutto e per tutto un’inserzione pubblicitaria.

Infine una delle prove riservate agli universitari richiedeva di analizzare criticamente questo tweet:

Ci si aspettava che studenti così maturi non avrebbero avuto difficoltà a riconoscere che il sondaggio citato è rispettabile e che che, allo stesso tempo, si tratta di una fonte di parte, ma solo pochi di loro sono stati in grado di fare questo ragionamento. Molti non hanno nemmeno cliccato sul link.

Mentre la ricerca era in corso il mondo assisteva all’ascesa di Trump e ora molti sembrano aver trovato conforto nel buffo neologismo post-verità, ma i ricercatori di Stanford sembrano meno fatalisti. L’accessibilità alle bufale è aumentata enormemente grazie a internet, mentre parallelamente si è indebolito il controllo dei contenuti da parte dei media. Questo significa che ogni cittadino ora deve pensare un po’ come un fact-checker e la scuola deve attrezzarsi per fornire questo tipo di formazione.

Esistono già diverse esperienze di successo che dimostrano come la caccia alla bufala possa entrare a far parte del percorso scolastico, anche a partire dalla scuola primaria: se siamo d’accordo con Laura Boldrini quando afferma che smontare le bufale è “resistenza civile“, forse le aule scolastiche sono i luoghi da cui cominciare.

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